martedì 31 dicembre 2013

Buon anno! - e un ripasso di quello vecchio...

Wow che anno il 2013!
Se lo riguardo attraverso le immagini del mio blog, assomiglia ad una collana di pietre preziose: le pietre rosa di Jaipur, "the Pink City", con le sue strade brulicanti di vita ed  un via vai continuo di uomini e mezzi. Credo sia diventata un posto "preferito", dopo esserci tornata tante di volte.



Le atmosfere indiane si possono anche apprezzare mentre si sta seduti in treno, e certamente le stazioni ferroviarie sono un'altra esperienza forte che consiglierei a tutti…

E poi stoffe e colori, un altro tema di cui mi piace parlare: credo che il fascino del tessuto stia non solo nella meraviglia del risultato finale, ma anche - moltissimo - nel processo un po' magico della sovrapposizione di fili e di colori, nel lavoro sapiente e paziente, millenario, di chi produce stoffa.
Nei post pubblicati parlo in particolare della stoffa block print del Rajasthan e degli artigiani che ancora oggi intagliano i blocchi di stampa per la stoffa a mano.


E poi alcuni frammenti particolari della mia cara India: elefanti e turbanti! Tutto superlativo…ma anche alcune immagini di un'India meno abbagliante, quella delle cose piccole e piene di significato.

Ho fatto tappa per alcuni post in un villaggio molto speciale, Bassi (in Rajasthan), con i suoi artigiani che ancora oggi intagliano e dipingono dei tempietti portatili (i Kavad) utilizzati un tempo dai cantastorie; ma nello stesso villaggio ho fatto un incontro speciale: quello con i sorrisi e la generosità delle sue donne, impegnate in una antica cerimonia di fertilità e fortuna.


E poi novembre e dicembre sono stati mesi dedicati alla saggezza del Buddha, che ho ascoltato attraverso le parole di una monaca eccezionale (Ven Robina Courtin) incontrata in Francia, a Toulouse, all'Istituto Vajrayogini.




Vorrei augurare a tutti voi un 2014 fantastico!


domenica 22 dicembre 2013

Mattarello(a)way: un viaggio, con gusto

foto dal blog Mattarello(a)way

Una storia molto 'masala' quella che vi propongo in questo post pre natalizio.

La storia di Candida e Sanja - la prima romagnola, la seconda nata a Mostar e cresciuta in Scandinavia - che hanno deciso di partire insieme per un lungo viaggio.

Un'amicizia di lunga data, una casa a Bagnacavallo (Ravenna), un viaggio insieme in India un anno fa e qualche mese a disposizione per realizzare un sogno: questi gli ingredienti che hanno portato le ragazze ad imbarcarsi per una spedizione del tutto fuori dal comune.
Un viaggio di scoperte, una sorta di un Grand Tour dell'India e del sud est asiatico, guidato ... dal palato!

foto dal blog Mattarello(a)way
L'idea infatti è quella di tracciare una via del gusto attraverso le ricette che di volta in volta riusciranno a sperimentare, assaggiare e scambiare con le persone incontrate nelle varie tappe.
In cambio offriranno le ricette nostrane: tagliatelle, cappelletti e strozzapreti, tutti preparati a mano, con il fido matterello, che fa parte dell'equipaggiamento di viaggio.

Partite ai primi di dicembre, attualmente Candida e Sanja sono in Kerala e, leggendo il loro blog, sembra che a Kovalam abbiano già trovato delle famiglie ospitali che hanno aperto le loro cucine e le loro dispense. E' un viaggio di scoperta e scambio di ricette, ma sembra anche un incontro pieno di curiosità per 'l'altro', attraverso le parole scambiate, i sorrisi, le tradizioni e le abitudini che le nostre viaggiatrici stanno piano piano decifrando.
Da tutto questo Candida e Sanja progettano di ricavare un libro e forse (chissà, perché no) anche un programma televisivo.

A me vien da chiedermi cosa ne pensino di questo progetto le persone incontrate e quale siano la reazioni suscitate. Soprattutto nei posti più turistici, credo sia abbastanza impegnativo chiarire esattamente gli obiettivi e le intenzioni del loro viaggio…
Ma penso anche che basterà seguire i loro racconti per farsene un'idea.
Dopo l'India, Mattarello(a)way si sposterà in Thailandia, Laos, Vietnam e Cambogia.
Attendiamo con l'acquolina in bocca!

domenica 8 dicembre 2013

Impermanenza?


Django Django - WOR from Jim Demuth on Vimeo.

Dopo tutto questo parlare di buddhismo (ma tornerò sull'argomento), ho pensato di pubblicare un video pescato sulla rete che sembra parlare di tutt'altro argomento.

Si tratta di un film realizzato per fare da illustrazione ad un pezzo musicale degli Django Django (una indie band inglese), girato a durante il Maha Kumbh Mela ad Allahabad lo scorso febbraio.
E' la storia di alcuni stuntmen indiani che ogni giorno rischiano la vita lanciandosi in un vorticoso giro di pista a bordo di auto e moto in bilico tra vita e morte, almeno così sembra a me.

E' lo spettacolo del rischio, un roulette impazzita in cui i giocatori sembrano essere consapevoli delle possibili conseguenze, ma anche coscienti di non avere alternative. Siamo impermanenti - ci dicono -, il vero rischio si corre ogni giorno della nostra vita in attività o comportamenti che non ci sembrano pericolosi, né tantomeno determinanti per il nostro destino.
E ci invitano a guardare la realtà delle cose: siamo tutti volante di quelle auto, a volte in piedi, o comodamente seduti a gambe incrociate, senza neppure preoccuparci di controllare il mezzo che abbiamo a disposizione. Forse perché crediamo di essere immortali, o forse crediamo che la corsa non dipenda da noi.
Volete scendere?

sabato 16 novembre 2013

L'amore secondo il Buddhismo


Uno dei capitoli più interessanti e dibattuti, durante le giornate di insegnamento di Robina Courtin all'Istituto Vajrayogini in Francia, è stato il tema dell'amore.
Secondo la visione buddhista - e secondo la nostra formidabile insegnante - non è quasi mai possibile (o molto raro) che si verifichino casi di amore in cui non ci sia attaccamento. Tra partner, ma anche l'amore materno verso i figli, questo sentimento è molto spesso un misto di emozioni diverse, in cui il senso di insoddisfazione dovuto all'attaccamento la fa da padrone.
Neanche farlo apposta, è appena stato pubblicato un articolo della stessa monaca su un periodico inglese, Soul and Spirit.
Provo a tradurvelo…

Si può amare senza attaccamento?
[…]
Prima di tutto, molto spesso si parte dal presupposto che amore e attaccamento siano la stessa cosa. Ma, secondo il sistema di pensiero buddhista di interpretare le nostre emozioni, l'attaccamento è la parte più insoddisfatta, nevrotica e bisognosa che cerca costantemente un "qualcuno", pensando che questo qualcuno faccia la felicità.
Ma l'amore, d'altro canto, fa riferimento anche alla nostra parte più altruistica, alla connessione con gli altri, alla speranza che gli altri siano felici e soddisfatti. Certo che nell'amore è presente sia il primo che il secondo aspetto, ma spesso è difficile distinguerli.
Sono come il latte e l'acqua mescolati insieme.
Se siamo felici in una relazione, è grazie all'amore. Se invece c'è rabbia, offesa o gelosia, è perché c'è attaccamento. Ma spesso è così difficile rendersene conto.
"Attaccamento" è una parola relativamente semplice, ma ha molte implicazioni: fondamentalmente si manifesta in un sentimento di bisogno profondo, dentro di noi. E' la convinzione che in qualche modo "io non sono abbastanza". Non ho abbastanza, e nonostante tutte le cose che posso fare o avere, comunque non è mai abbastanza.
E siccome siamo così convinti che sia vero, ci mettiamo a cercare spasmodicamente qualcuno che ci faccia sentire meglio. E quando troviamo quel qualcuno che innesca in noi delle sensazioni positive, ci attacchiamo a lui/lei, convinti che sia proprio questo lui/lei che ci renderà veramente felici. E poi pensiamo che questo qualcuno ci appartenga, che sia una sorta di estensione di noi stessi.

Questo attaccamento è la radice di tutte le altre emozioni negative e dolorose che proveremo in seguito.
Siccome l'attaccamento si sforza di ottenere ciò che vuole, nell'istante in cui non ci riesce - quando lui/lei non chiama, o torna a casa tardi, o si volta a guardare qualcuno - immediatamente sorgono ansia, rabbia e gelosia (oppure si abbassa l'autostima), in base ai nostri modi abituali di reagire all'insoddisfazione.
In genere la rabbia è la tipica reazione all'attaccamento non soddisfatto.
Tutti questi meccanismi sono così profondamente radicati in noi; noi crediamo così ciecamente alle storie che ci raccontiamo, che non le mettiamo quasi mai in discussione. Ma dovremmo.

E l'unico modo possibile per farlo è conoscere la nostra mente e i nostri sentimenti: in altre parole, dovremmo imparare a diventare i nostri stessi psicoterapisti.
Il fatto è che l'attaccamento, la rabbia, la gelosia e qualsiasi altra emozione dolorosa non sono un 'dovere'. Sono solo vecchie abitudini che si possono cambiare.
Il primo passo è comprendere che, conoscendo meglio la nostra mente, possiamo imparare a distinguere le diverse emozioni che sorgono e gradualmente possiamo imparare a cambiarle. La prima scommessa è che ci rendiamo veramente conto come tutto ciò sia possibile.
Il passo successivo è di allontanarci dal brusio continuo della nostra mente. Un modo semplice per farlo - è così semplice che diventa quasi noioso! - è sederci per pochi minuti ogni mattina e concentrarci su qualcosa. Per esempio, sul respiro.
Niente di speciale, niente trucchi, niente cose mistiche! E' una tecnica molto concreta. Con determinazione si può decidere di concentrarsi sul respiro - la sensazione che dà inspirare ed espirare attraverso le narici.
Nel momento in cui la mente se ne va, riportare l'attenzione sul respiro.
L'obbiettivo non è eliminare del tutto i pensieri, ma fare in modo che non ci condizionino: lasciare che sorgano, per poi allontanarli.
Il risultato a lungo termine di questa tecnica è una mente perfettamente a fuoco. Richiede tempo, certo, ma nell'immediato, la nostra capacità di fare un passo indietro dalle storie che ci raccontiamo, produrrà una certa obiettività.  Lentamente, riusciremo a sbrogliare la matassa, a smontare le storie e alla fine riusciremo a cambiare i nostri pensieri. Pare che il segno della nostra nuova capacità di comprendere, sia che pensiamo di non aver concluso nulla, di star peggiorando! Ma non è così! Semplicemente, siamo in grado di ascoltare le nostre storie più chiaramente, ed è proprio così che possiamo cambiarle.

L'articolo è pubblicato on line sul sito di Robina Courtin.
Le immagini che vedete sono state scattate nel monastero di Nalanda, a 10 km dall'Itituto Vajrayogini, dove ho seguito il seminario di Robina Courtin. E' un monastero di tradizione tibetana Geluk con una ventina di monaci residenti, quasi tutti occidentali. I monaci qui seguono i corsi di formazione, che durano diversi anni. La costruzione del fabbricato nuovo che vedete risale a pochi anni fa.




domenica 10 novembre 2013

the Samsara Club

"La mente - spiega la monaca buddhista Robina Courtin - è un flusso di milioni e milioni di pensieri. Sono pensieri ai quali noi crediamo ciecamente. Che modellano, momento dopo momento, la nostra stessa mente e la persona che siamo.
Spesso gli altri, le persone che incontriamo e con le quali viviamo ogni giorno, non hanno la stessa visione. A volte si generano dei conflitti, e questo ci fa soffrire. A volte il conflitto sorge e si sviluppa solo dentro di noi - come in un cortocircuito interno del pensiero -, generato dalla confusione e dall'errore.
Avversione, Attaccamento, Ignoranza sono i tre 'veleni', cioè i tre motivi per cui soffriamo a causa degli inganni della mente".
Così veniamo presi dentro ad un meccanismo in cui crediamo alle apparenze create dalla nostra stessa mente, che si dibatte tra 51 stati mentali diversi e illusori in cui perdersi. Ciascuno di questi stati mentali (positivi, negativi o neutri) è il risultato del frutto karmico piantato nel passato, che matura nel qui e ora.
E i frutti delle nostre azioni (karma) maturano infallibilmente, prima o poi.
E' logico, è scientifico! E' come la legge fisica di Newton, "ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria". E se questo principio viene accettato universalmente come una legge scientifica applicabile alle 'cose', perché non potrebbe essere vera anche per gli esseri senzienti in generale, quindi anche per noi?
"Provate! Indagate! Sperimentate! Non date ascolto a chi vi chiede di credere punto e basta" - dice Robina - con il suo modo diretto, a volte brusco, ma sempre molto lucido.
"Buddha era un tipo comune, come noi, che però è stato in grado di guardare oltre l'apparenza dei fenomeni per indagarne le leggi di causa e di effetto. E ci esorta a fare altrettanto: a verificare se le sue verità siano valide o no. Ma, molto spesso - spiega la monaca - preferiamo pensare di non avere responsabilità in quello che ci succede… non è colpa mia! - ci ripetiamo - sono gli altri che mi hanno fatto questo!"
E il nostro ego si attacca ad ogni possibile versione illusoria della realtà: e più crediamo alle storie proiettate dalla nostra mente confusa, più - paradossalmente - ci sentiamo insoddisfatti.

Ven Robina Courtin
E allora? Come dovremmo comportarci?
"E' necessario - spiega Robina - accettare il fatto che ogni piccola cosa che ci succede, in ogni istante della nostra vita, dipende in ultima analisi da noi. Così come una rosa non potrebbe fiorire se il suo seme non fosse stato piantato nella terra; così gli eventi della nostra vita sono il risultato di azioni, pensieri e intenzioni che noi abbiamo 'seminato' nel nostro passato. E le situazioni in cui ci sembra di subire la volontà altrui, possono sempre essere interpretate con la consapevolezza e lo sguardo di chi è in grado di vedere oltre le apparenze. Le esperienze negative, invece di annientarci, ci dovrebbero nutrire".
Questi continui conflitti che come un traffico impazzito intasano la nostra mente (il samsara) possono essere dissolti da un comportamento giusto, dalla disciplina nell'uso della parola e soprattutto da una visione diversa e più limpida della realtà.

La scorsa settimana ho partecipato ad un fantastico seminario nell'Istituto Vajrayogini di Lavaur, vicino a Toulouse, in Francia. Il seminario si intitolava: "When the chocolate runs out" e la docente era la Ven. Robina Courtin, una monaca buddhista di tradizione tibetana Gelug. L'Istituto fa parte di una rete di fondazioni create da Lama Zopa Rinpoche e Lama Yeshe Rimpoche in tutto il mondo (la FPMT), che si rifà agli insegnamenti di Lama Tsongkhapa (XIV sec).
Robina Courtin è una persona davvero speciale: durante le giornate di seminario ci ha raccontato la sua incredibile vita e i passaggi che la hanno condotta a prendere rifugio nel buddhismo. Nata in una famiglia numerosa (7 figli) australiana molto religiosa (cattolica), visse un'infanzia davvero dura, in cui le fu 'diagnosticata' - come a quasi tutti i suoi fratelli e sorelle - una sindrome maniaco depressiva. Cresciuta in convento e con l'idea fissa di diventare sacerdote (come dice lei) e al contempo abituata ad un ambiente familiare che definiremmo borderline, Robina si innamorò della musica di Billie Holliday e cominciò a studiare canto con gli insegnamenti materni. 
Nel pieno degli anni '60 scappò a Londra, e con l'entusiasmo dei suoi 23 anni si impegnò nelle proteste sociali e politiche dell'epoca: una giovane donna indipendente, con molti amanti e molte avventure, in spirito sex, drugs and rock'n roll (o meglio: sex, drugs and jazz). Poi seguirono periodi di rifiuto totale degli uomini, (e lì la nostra Robina diventa lesbica, femminista e separatista), e poi rifiuto della politica e poi rifiuto dei ricchi e potenti e poi… e siccome non poteva odiare tutta l'umanità - e c'era rimasta soltanto lei stessa da odiare - cominciò a dedicarsi al Kung fu a tempo pieno.
Un giorno - "il giorno della mia salvezza", lo definisce lei - a causa di un incidente, non fu più possibile praticare le arti marziali. Robina era furente (e vi garantisco che deve essere stato così, dato il carattere che conserva ancora oggi), ma ebbe occasione di incontrare Lama Zopa e Lama Yeshe, che divennero in breve i suoi maestri spirituali. Aveva 31 anni.


Se potete, date un'occhiata al sito di Robina, c'è anche il trailer del documentario sulla sua vita.
E sempre se potete, ascoltate qualche brano dei suoi insegnamenti, disponibili sul sito dell'Istituto Vajrayogini...

sabato 5 ottobre 2013

Di Terra e d'Acqua: le donne di Bassi

... E mentre siete a Bassi, intenti ad ammirare i Kavad dipinti di cobalto e cinabro, persi nei meandri delle spire dipinte di Ananta, il serpente su cui Vishnu sonnecchia tra un'era cosmica e l'altra - può capitare di essere attirati da una musica strana.

C'è un bel tempio a Bassi, con una piscina rituale a gradini - un Baoli (in Gujarat si chiamano Vav, ne ho parlato in un post, qualche anno fa) dove la gente va a pregare e a purificarsi. Ma in certi giorni, evidentemente, si può assistere ad una cerimonia speciale, che coinvolge le donne del villaggio unite in una processione che le porta di casa in casa.


Un corteo di giacinti d'acqua e fiori di bouganville, che si sposta accompagnato dai tamburi per portare la fertilità e la ricchezza in ogni famiglia del villaggio.
Sono partite dalla piscina, che ha riempito di acqua sacra i vasi che tengono sulla testa. Sono vasi di terracotta, nei quali, alcuni giorni prima, sono stati deposti dei semi. I semi sono germogliati, come nel ventre della Madre Terra, e loro li portano in processione come fossero i loro figli.

Il vaso nella cultura indiana ha un significato profondo. E' il recipiente che si usa per trasportare l'acqua - anche per chilometri -, ma è anche il contenitore per il cibo quotidiano. E' simbolo della terra e del ventre materno, entrambi fertili e generosi, capaci di dare la vita o di conservarla, perché possa crescere e svilupparsi.
Nell'india antica come in quella contemporanea il vaso è venerato come simbolo di fertilità e di vita. Nei miti, conteneva l'amrta, il nettare dell'immortalità, e gli dei se lo contendevano con i demoni.
Ma erano - e sono ancora - solo le donne che lo posseggono davvero, e solo loro hanno la capacità di donare quel che cresce dentro di loro.

Ma l'acqua e la vita possono assumere sembianze minacciose, come per le divinità femminili terrifiche, che vivono nelle foreste e cavalcano animali selvatici; o i fiumi in piena, come quando la dea Ganga minacciò - con la sua corrente impetuosa - di travolgere il mondo. E fu poi fermata dalla foresta dei capelli del dio Shiva.
Durga, Kali e Ganga sono le energie femminili primitive (la Donna Selvaggia, direbbe Clarissa Pinkola Estès), che si trasformano in energie docili e generose, quando assumono le sembianze della terra coltivata, di una vasca per le abluzioni rituali, di una moglie e madre di famiglia.
Stagione dopo stagione, assicurano la sussistenza della famiglia e la continuità delle generazioni. Seminano, coltivano, raccolgono e cucinano. Danno la vita e la crescono. Sono acqua e terra e si ricordano ogni tanto anche del loro lato più selvaggio, più 'inaccessibile', quello del fuoco e dell'aria.

Per celebrare questa magnifica occasione, le donne di Bassi, come un'esplosione di fiori, si sono riunite vicino alla vasca delle abluzioni.
Hanno riempito i loro vasi, li hanno sistemati sulla testa e hanno cominciato a danzare in cerchio. Ad ogni passo - nel cerchio del tempo - una di loro, toccata da un bastone di bambù, lascia cadere un po' d'acqua, perché la vita è generosa e non le interessa risparmiare.

Ad occhi chiusi, come sonnambule, le donne di Bassi si lasciano guidare per ogni strada, e su ogni soglia seminano la vita, spargono la speranza, coltivano l'amore: è la loro natura e non sanno fare altro.








domenica 29 settembre 2013

I Kavad di Bassi

Bassi è un villaggio poco distante da Cittorgarh, nel Rajasthan meridionale. A Bassi ci si va (in genere) per passare una notte in uno dei numerosi Heritage Hotel disseminati per tutto il territorio nazionale indiano, che un tempo erano le dimore principesche di raja locali, poi decaduti. Per poter mantenere i loro palazzi, molti di loro decisero di trasformare una parte di queste magnifiche dimore di famiglia in hotel, così che i turisti potessero calarsi nell'atmosfera delle corti rajput di un tempo.

Se non ci si va per questo motivo, a Bassi, ci si può andare, come ho fatto io, per vedere gli ultimi intagliatori e decoratori di Kavad, una sorta di piccolo tempio portatile, in legno, che si apre su storie e miti tradizionali, illustrati a colori vivaci.
Ci sono ancora poche famiglie a Bassi che si dedicano alla produzione dei Kavad, che vengono realizzati ormai soprattutto per il mercato turistico. Ma un tempo erano i raccontastorie - i Kavadiya Bhat - a commissionare queste piccole opere ingegnose alle famiglie di falegnami di Bassi.
Servivano per portare di famiglia in famiglia le storie tradizionali, i poemi epici o la storia della vita di Krishna, in modo che le nuove generazioni potessero conoscerle. Non sempre le storie venivano raccontate nello stesso modo: ciascun storyteller aveva la possibilità di interpretare i fatti narrati, di aggiungere qualche particolare o di approfondire certe vicende che la storia ufficiale ignorava.

Si formarono così, nel corso del tempo, tante diverse interpretazioni della stessa storia o dello stesso mito, che rimase vivo, anche se in continua evoluzione, attraverso le generazioni.
Ci possono essere tanti modi per raccontare la stessa storia, ed è proprio grazie ai diversi punti di vista e alle diverse voci che la raccontano, che questa rimane viva e sostanzialmente intatta in tutte le sue preziose 'versioni'.
Oggi ci sono ancora alcuni raccontastorie che visitano le famiglie per raccontare le storie tradizionali e recitare, al termine del racconto, la genealogia della famiglia ospite. In modo che i giovani ricordino i miti, ma anche le proprie radici familiari e culturali. Recentemente ci si è inventati anche usi alternativi per i Kavad: ci sono per esempio quelli che hanno l'alfabeto hindi o inglese dipinto sugli sportellini, in modo che i bambini possano imparare le lettere divertendosi; oppure c'è qualche NGO che commissiona a Satyanarayan Suthar, un famoso produttore di Kavad di Bassi (nella foto), queste magiche scatole istoriate, per raccontare le regole igieniche di base, gli eventuali pericoli domestici, alcune norme di buona pratica ecologica e così via. Un modo per far sì che uno strumento antico riacquisti significato e sopravviva alla globalizzazione.

lunedì 16 settembre 2013

Colori

Madhya Pradesh Tourism - Colours from Storm Studios on Vimeo.

Un po' di colori per la vostra settimana... oggi è lunedì 16 settembre, le scuole riprendono (anche quella di mia figlia, che comincia un nuovo ciclo della sua vita) e io vorrei celebrare con un sorriso. Quella che vedete è il promo del Madhya Pradesh, girato come se lì fosse sempre Holi, il festival primaverile della rinascita e dei colori... invitante, no?

martedì 10 settembre 2013

Le Dimore degli Dei: un documentario sul tempio hindu


Una nota veloce per dirvi che venerdì 13 alle 21 sarò a Pegognaga (MN) dove è stato costruito un tempio hindu. Ve ne ho parlato in diverse occasioni; questa volta ci sarò per la proiezione del documentario "Le Dimore degli Dei" che mio padre ha realizzato qualche anno fa.
Si tratta di un lavoro sul significato simbolico delle architetture religiose hindu, affrontato attraverso l'esplorazione di alcuni tra i più bei templi dell'India meridionale, i templi Hoysala del Karnataka (XI - XII sec).
Nel documentario, queste meravigliose costruzioni fatte di pietra ricamata vengono accostate ad una danza, la danza delle sue sculture, che raccontano le storie di dei e demoni, e la danza contenuta nelle sue forme, che ci riporta ad una cultura capace di lasciarci a bocca aperta…
La proiezione è parte di un progetto più ampio, il Progetto Virgilio, per la valorizzazione della cultura della comunità indiana che vive e lavora in queste zone tra la Lombardia e l'Emilia Romagna. La proiezione si svolgerà all'interno del tempio, lo Shri Hari Om Mandir, in via M Luther King a Polesine di Pegognaga, Mantova.


Naturalmente siete tutti invitati ^-^

domenica 1 settembre 2013

Il fiume degli dei in un guest post


Ben ritrovati! dopo una pausa un po' lunga e un agosto un po' pesante, sono felice di essere qui...
Vi propongo, in questo inizio settembre, un cosiddetto 'guest post' un po' diverso dai miei soliti argomenti.
Alessandro Fambrini, un caro amico che insegna lingua e letteratura tedesca a Trento, ma è anche un bravissimo scrittore di fantascienza, mi segnala questo libro, a metà tra il suo e il mio mondo... 

Il fiume degli dei di Ian McDonald
trad. di Riccardo Valla e Silvia Castoldi
Urania “Jumbo” – luglio 2013

Ian McDonald è un autore scozzese-irlandese, relativamente poco noto in Italia, che ha spesso ambientato le sue opere in un immaginario “post-postcoloniale”, e in particolare nell’India futura, alla quale ha dedicato la raccolta di racconti collegati Cyberabad Days (2009; un romanzo breve appartenente a questo ciclo, Il circo dei gatti di Vishnu, era apparso un paio di anni fa nella collana “Odissea” di Delos Books). “Il fiume degli dei” (River of Gods, 2004) è un’opera vasta e ambiziosa che fin dal titolo mette al centro del suo orizzonte uno dei fiumi sacri per eccellenza, il Gange: e lungo le sue rive, per lo più nella città di Varanasi e poi tra Mirzapur e Patna, si svolge la maggior parte delle vicende del romanzo, a sua volta denso, torbido, fluviale come la realtà nella quale si muovono i suoi personaggi.

Un romanzo complesso. Complesso per lo scenario: nel 2047 l’India è divisa tra tre stati rivali, Bharat, Awadh e Bengala, che si contendono la preziosa risorsa dell’acqua trasportata dal fiume e sempre più messa a rischio dai cambiamenti climatici. Mentre il Bengala si impegna nel titanico progetto di rimorchiare un gigantesco iceberg dall’Antartide fino alle acque del Golfo, tentando di sovvertire l’andamento delle stagioni monsoniche ormai sconvolte dalla siccità che non sembra aver fine, Awadh e Bharat entrano in conflitto per il possesso una diga, costruita da quest’ultimo stato a Kunda Kadhar, e attraverso la quale sarà possibile regolare il prezioso flusso del fiume. L’India, tuttavia, e in particolare il Bharat, è anche il fronte sul quale le potenze internazionali combattono una guerra ancor più spietata, tecnologica ed economica, quella legata all’energia e all’informatica: le sue leggi più tolleranti rispetto ai paesi occidentali permettono infatti lo sviluppo di AI, intelligenze artificiali progredite fino a – e anche oltre – la soglia dell’autocoscienza. Intelligenze diverse da quella umana, diffuse nei flussi d’informazione che avvolgono il mondo, per molti versi indistinguibili dagli dei delle antiche mitologie…

Complesso per i personaggi: una decina di protagonisti principali, che si alternano nei punti di vista dei capitoli del romanzo, prima di fondersi insieme nella risolutiva parte finale, a formare un mosaico appassionato, dai vividi colori, in cui interagiscono "babu" e "firengi", anziani capi di potentati economici che si ritirano e divengono sadhu e i loro figli che rinunciano alla carriera di comici in Scozia per assumere responsabilità molto più grandi, mogli di funzionari che sfidano l’ordine della casta per seguire leggi più intime di quelle imposte dalla tradizione. E così via, in un intreccio di vite e destini. Il tutto all’ombra della Trimurti e sotto l’egida di Kalki, il decimo avatar che segnerà la fine di questa era e darà inizio a un tempo in cui forse per l’uomo vi sarà un tempo migliore.
Complesso per la trama, in cui i fili dell’intreccio si annodano e si sciolgono attraverso la danza dei personaggi, e che vede il tentativo da parte di un’intelligenza artificiale di affrancarsi dal vincolo materiale e di creare (o meglio di individuare, nella ghirlanda infinita di universi coesistenti) una dimensione di esistenza le cui leggi rispettino la sua natura virtuale. Ciò avviene attraverso fenomeni che assomigliano a segni celesti, pur senza esserlo (o essendone una razionalizzazione), e attraverso dinamiche in cui sono portati all’estremo gli interrogativi su ciò che è umano e fin dove può spingersi la coscienza per rimanere tale.

Tipicamente per la fantascienza più matura e più accorta delle ultime generazioni, alla ricerca di un taglio decisamente letterario, si aggiungono ipotesi speculative su dimensioni della fisica e della cosmologia che sfiorano l’esoterico e coinvolgono l’origine dell’universo, la natura dell’intelligenza e della coscienza, i confini tra l’uomo e il prodotto della sua tecnologia. In tutto ciò l’India, luogo dove gli dei sembrano essere una presenza continua e immanente, in cui l’arcaico e il nuovissimo si fondono in una sintesi che contiene forse più di ogni altra la quintessenza dell’umano, rappresenta ben più di uno sfondo: è una protagonista viva e pulsante che travolge e sorprende con i suoi colori, i suoi odori, la sua unicità e diversità.

domenica 28 luglio 2013

Perchè i contadini coltivano il tè


Tea for Two from The Perennial Plate on Vimeo.

Ogni tanto, quando ne ho bisogno, mi preparo una tazza di chai, il tè indiano con latte e spezie (e tanto zucchero).
Mi mette di buon umore, mi fa stare bene. E mi ricorda certi momenti dei miei viaggi, quando ci si ferma per gustarsi una tazzina di questa cosa profumata e intensa.

Durante i viaggi per fare le riprese dei documentari, quando ci offrivano una tazza di chai, era una pausa così piacevole, prima di rimettersi in moto, con la testa concentrata sulle cose da fare, le inquadrature, le interviste. Oppure - nei viaggi più rilassati - quando le persone conosciute, anche semplicemente i proprietari dei negozi in cui si facevano acquisti, spedivano il commesso più giovane a prendere una tazza di tè per gli ospiti.

In questo video molto dolce di The Perennial Plate, si racconta la storia di due coltivatori di tè, una coppia di mezza età di Sri Lanka.
Nella loro intervista, prima ancora di raccontare come coltivano il loro tè, viene fuori la loro storia personale. Il giorno in cui si conoscono, promessi sposi di un tradizionale matrimonio combinato, i primi sguardi, le scintille di un'intesa immediata per una storia d'amore che dura da 34 anni.
"E' perché facciamo tutto insieme" - dicono entrambi.
Far germogliare le piantine giovani, ripulire il giardino, preparare il curry, raccogliere la frutta, guardare la tv, e poi mangiare il cibo preparato.
Coltivare insieme le piante di tè, con cura e dedizione; tutto fatto con amore, come il primo giorno.

giovedì 11 luglio 2013

Vandana e i semi


Two Options from The Perennial Plate on Vimeo.

Se una multinazionale agroalimentare volesse trasformare l'indipendenza dei contadini in fatto di sementi in una dipendenza degli stessi da questa stessa multinazionale, come farebbe?

In questo brano di intervista Vandana Shiva, scienziata e attivista indiana ormai piuttosto nota a chi si interessa di questioni economiche globali in relazione al cibo, ci spiega come funziona - secondo il suo punto di vista - il meccanismo di acquisizione del potere delle grandi multinazionali americane.

In India l'agricoltura è ancora in mano ai piccoli proprietari terrieri e contadini che vivono nei villaggi e che cercano di cavarsela in un mercato globale sempre più complesso e difficile da interpretare.
Il punto di partenza sono i semi, che i contadini sapevano conservare - in un passato non troppo lontano - recuperandoli dalle coltivazioni dei loro campi o che acquistavano dai commercianti locali.

Ma quando un colosso del mercato agroalimentare arriva in un paese come l'India, la prima cosa che fa è cercare di dimostrare la superiorità qualitativa e di resa delle sue sementi. Promette che i suoi semi produrranno di più e saranno più resistenti a siccità e malattie. Per essere più sicuri, suggerisce ai contadini di acquistare - oltre alle sementi ibride OGM - anche i prodotti chimici (pesticidi o fertilizzanti) ad hoc per quelle specifiche varietà.
Oltre a promuovere a tappeto i suoi prodotti, la multinazionale acquisisce le aziende locali di selezione dei semi. O perlomeno cerca di entrare nella gestione, in modo da influenzarene il più possibile ogni attività.

A dire la verità, questi nuovi semi della multinazionale, sono piuttosto costosi per i contadini, ma d'altra parte, promettono una resa così alta che con una stagione di semina si dovrebbero recuperare i soldi spesi, e anche di più.
E se i contadini non avessero abbastanza soldi per comprare semi e pesticidi?
Potrebbero sempre rivolgersi ai prestatori di denaro, o alla banca…
E se il raccolto non fosse così ricco come promesso? Se non si potessero ripagare i propri debiti immediatamente, forse si potrebbero chiedere altri soldi per tentare ancora di seminare i semi miracolosi…
Se infine non si riuscisse più ad uscire da questo circolo vizioso, alla fine resterebbe solo l'ultima opzione: buttar giù lo stesso pesticida che doveva servire a far vivere la famiglia in modo dignitoso.
Forse così lo stato pagherà un risarcimento alla vedova, che basterà per andare avanti ancora un po'.

Avendo letto molto su questi argomenti - del cotone transgenico della Monsanto - e i meccanismi che innesca nelle società povere o in via di sviluppo, mi sono resa conto che la lettura della realtà è molto contraddittoria.
Lasciando perdere la visione delle stesse multinazionali (che ovviamente è di parte, dati gli interessi economici), anche tra coloro che non hanno interessi diretti a vendere le sementi OGM, soprattutto tra gli scienziati, pare che ci sia un fronte comune pro multinazionali.
In realtà ciò che sostengono e difendono è la produzione di organismi modificati geneticamente, che potrebbe non costituire un pericolo per la salute di uomini e pianeta. Questo è molto probabile, per una serie di osservazioni oggettive della realtà.
Ma quello che mi chiedo è come si fa a non considerare globalmente, in particolare dal punto di vista di chi non può scegliere (i contadini, e anche noi ricchi consumatori) le conseguenze del monopolio di un potere così grande e ramificato in agricoltura.

Allora preferisco il punto di vista di Vandana Shiva, che ci invita a proteggere il cibo per proteggere il futuro del mondo.
"Un 'no' detto con consapevolezza è mille volte meglio di un sì detto per evitare fastidi o far piacere agli altri" (M.K. Gandhi).

domenica 16 giugno 2013

Paan masala



Ne ho fotografati diversi, di notte, di giorno, sui marciapiedi in mezzo all'andirivieni della gente, con un semplice cavalletto e due assi (e tutto l'occorrente sopra) o con un vero e proprio negozio…
I paan wala, i venditori di paan, involtini abbastanza misteriosi - per noi - ripieni di tante cose diverse, tutte arrotolate dentro una foglia di betel.

Facciamo un passo indietro e diciamo che è abbastanza comune, quando si va in India le prime volte, far caso alle macchie rosse (sono sputi, sì!) sui muri o negli angoli delle strade.
Ultimamente ce n'è meno in giro, sarà perché è "proibito sputare il paan" - recita qualche cartello - o perché i giovani si sono abituati ad altro (non credo sia arrivata la sigaretta elettronica, ancora), comunque fa sempre parte del paesaggio e stimola ancora la curiosità.
Appena si riesce a cogliere qualcuno che si gira e sputa in un angolo, o peggio, lo fa al volo mentre guida una vespa o una bicicletta, ecco che si svela il mistero dei muri macchiati di rosso...

Ma cosa ci troviamo dentro a questi pacchettini di foglie verdi, tutti infiocchettati e luccicanti che mastica la gente?
Prima di tutto delle fettine sottili di noce d'areca (supari in hindi, che un po' assomiglia alla noce moscata) e poi anche un pochino di calce spenta in pasta, che viene spennellata sulla foglia verde di betel. Questa pianta è una specie rampicante, come il pepe, che produce delle belle foglie a forma di cuore. Poi, nella lista degli ingredienti c'è molto spesso il tabacco da masticare e un pasta che si ottiene dall'Acacia Cathecu (si chiama khata).
Questo mix basta per provocare un certo effetto psicoattivo, tonico (ma serve anche per favorire la concentrazione, far passare il senso della fatica e della fame)  e a colorare di rosso la saliva.

Se non fosse che nel paan ci sono anche molti altri ingredienti, che variano in base ai gusti.
C'è chi preferisce far aggiungere un misto di spezie come semi di finocchio, sesamo, chiodi di garofano (che serve anche per fissare il pacchettino di foglia) e polveri varie dai gusti balsamici e dalle proprietà digestive (?).
Chi preferisce la dominante dolce invece, può scegliere tra pezzi di frutta candita, gulkand (una marmellata di petali di rose), pezzetti di cocco e ciliegie sciroppate.
A volte, se proprio si vuol esagerare, c'è anche la foglia d'argento, quelle che si usano anche su certi dolci da pasticceria.

Il paan - che viene consumato anche altrove, in tutto il sud est asiatico, per esempio - dà però una serie di problemi, che vanno ben oltre le chiazze rosse sui marciapiedi. Dà dipendenza e pare che sia la causa di una certa incidenza di tumori alla bocca o alla gola.
Negli ultimi anni, accanto al paan tradizionale, sono comparse sul mercato mille varietà di paan masala preparato industrialmente. Gli ingredienti sono simili (a parte la foglia di betel), ma sono tutti disidratati e sono contenuti dentro a delle coloratissime bustine di plastica. Il Gutka (si chiama così) è recentemente stato proibito da quasi tutti gli stati dell'unione indiana perché riconosciuto come dannoso alla salute, anche perché veniva consumato largamente anche dai bambini, oltre che dagli adulti. Ciononostante qualche negozio lo vende ancora (anche in nero!) sfidando le eventuali multe salatissime.
Comunque.
Voi li avete mai assaggiati?


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